LA SPEZIA (ebbene si! Ho fatto la gara)

Chilometri complessivi: 102.
Tempo impiegato: 3h30’.

Ebbene si! Contravvenendo ai miei buoni propositi, questa volta ci ho proprio dato dentro.
Ma andiamo con ordine.
Quest’anno la città ligure ci accoglie con una classica giornata primaverile (i miei più assidui lettori penso ricorderanno che lo scorso anno intitolai le quattro stagioni in 80 chilometri) e con un percorso in parte rinnovato.
Ci posizioniamo in griglia forti dell’esperienza di Camogli che, sembrandoci più o meno simile, ci fa fare progetti su quanto tempo impiegheremo. Prima della partenza, doverosamente, ricordiamo Gianpaolo Chini, collega deceduto durante la gran fondo “Olmo” una settimana fa; devo essere sincero, nonostante non lo conoscessi un groppo in gola l’ho avuto.
“Tifaci da lassù.”
E’ il primo pensiero che mi passa per la testa.
Al via, come al solito, mi destreggio ma resto combattuto sull’andatura da tenere perché la prima salita, La foce, aspetta dopo solo un paio di chilometri. La inizio ad un ritmo abbastanza sostenuto grazie ad un buon fondo e all’ampiezza della sede stradale.
“Ciao Stefano!”
“Oh. Ciao Andrea.”
Andrea, mio ex compagno di squadra, si accorge di me quando lo supero e mi fa riflettere.
“Se non l’ho visto mi sa che sono troppo concentrato.”


Così decido che è il caso di guardarmi attorno e scopro, grazie al fatto che la salita porta sin quasi a 300 metri di quota, una bella veduta della città sottostante e la costa, sebbene la giornata non sia limpidissima, si fa notare per parecchi chilometri.
Scollino e mi butto a capofitto nella discesa che porta verso Riccò del Golfo. Lungo la provinciale il gruppo è già esploso in molteplici frazioni; la mia è composta da 6-7 unità.
“Beh, procediamo così e aspettiamo gli eventi.” Penso, mentre viaggiamo fra i 35 ed i 40 chilometri orari, a seconda della pendenza della strada, un po’ rassegnato.
“Ma quelli lì… E’ una mia impressione o li stiamo prendendo?”
Noto, difatti, che andando d’amore e d’accordo ci avviciniamo al gruppo, ben più numeroso, che ci precede; questo non fa che darci nuova linfa e quella che sembrava un’azione da stolti si concretizza nell’aggancio.
“Vedrai come lo pagherai caro questo sforzo.”
Mi rimprovero pensando che, dopotutto, abbiamo percorso una ventina di chilometri circa. Infatti la compagnia si sfalda salendo verso Carrodano… Si sfalda ma non si sgretola perché, si può dire, restiamo in contatto con distacchi di pochi metri gli uni dagli altri e così, fra un sorpasso dato e uno ricevuto ci si immette nuovamente sulla provinciale in picchiata verso Levanto.
Anche qui la strada invita alle alte velocità. Per poco, però, perché sulla sinistra il Passo Guaitarola già ci attende.
Ecco la curva a gomito che non mi trova sorpreso. Io no, ma la mia Chiara evidentemente avrebbe gradito scendere ancora per cui quando è il momento di passare a rapporti più agili il deragliatore non spinge la catena sul plateau piccolo; mi trovo costretto a pedalare per ripetere la manovra ma ciò che ottengo è un blocco dei pedali. La paura mista a rabbia che la catena possa essere caduta ed incastrata mi spinge a staccare il piede sinistro per fermarmi; il dolore al polpaccio causato dal movimento repentino è notevole ma, come sono solito dire, il ciclista prima che alla sua pensa alla salute del suo mezzo, così ho avuto modo di posizionare la catena dove volevo che fosse senza dover usare le mani ma solo con un abile giro di pedali.
Come, e per ben altro motivo, mi ha detto di recente la mia amata Eleonora, da una situazione sfavorevole può capitare qualcosa di positivo; infatti grazie all’involontaria sosta ho modo di notare, a sinistra, Levanto ed il suo golfo: che bello!
Così, salendo, spesso giro lo sguardo per godere del panorama sottostante il quale, una volta sparito definitivamente mi ricorda di concentrarmi su ciò che devo percorrere.
La strada che porta al Passo Guaitarola è lunga 9 chilometri ma non ha sbalzi di pendenza notevoli quindi, una volta trovata la cadenza adatta, non è difficile mantenerla.
Un piccolo consiglio per salite così lunghe: non abbattetevi se venite superati e non esaltatevi se, a vostra volta, superate; nel primo caso potreste calare l’andatura e nel secondo accelerarla rischiando, in entrambi i casi, di fare più fatica.
Torniamo alla gara.
Al ristoro, posto ad un chilometro dalla cima, prendo al volo un bicchiere d’acqua più che altro per sciacquarmi la faccia. Il gesto, purtroppo, mi fa perdere contatto con il gruppetto nel quale ero e sul falsopiano successivo mi ritrovo da solo a litigare con il vento.
“Ma non arriva nessuno?”
Penso sperando nell’aggancio di altri colleghi.
A dir la verità in tre mi beccano ma riesco a stare con loro pochi minuti.
“Pazienza, ora inizia la discesa vera e metà gara è andata.”
Cerco di consolarmi. E a darmi fiducia ulteriore ci pensa la mia cavallina con la quale infilo il serpente d’asfalto con la solita perizia. Il tempo di dispiacermi (ben due volte!) per colleghi che hanno avuto bisogno dell’intervento sanitario e la carica viene suonata.
Riprendo i tre che senza pietà mi avevano lasciato al mio destino, li passo e ne raggiungo altri così, ai piedi dello strappo di Termine di Roverano, ci presentiamo in 15-20 unità.
Ahimè, come per il settimo cavalleggeri i Sioux sono stati un ostacolo, anche il settimo ciclisti ha dei nemici che puntualmente si presentano: i crampi!
Mi ritrovo a salire questa erta di poco più di un chilometro e mezzo con smorfie da far invidia a Henri Salvador (i meno giovani ricorderanno questo cantante/comico dalla mimica facciale originalissima). Anche questa passa (ed anche i crampi); il tempo di rabboccare la borraccia e scambiare un paio di battute con i volontari del ristoro, e giù. Anche questo tratto lo percorro in solitaria ma senza preoccupazione tanto, chilometro più chilometro meno, sono ai meno 20. Vengo ripreso da un drappello di una decina di colleghi e con loro recupero ulteriori partecipanti sparpagliati lungo il percorso.
A 15 chilometri un ultimo brivido me lo procura il collega veronese che mi precede e che, per un attimo di disattenzione, sbanda uscendo di strada. Con la forza della disperazione resta in piedi ed ha la prontezza di chiedermi persino scusa.
“Non ti preoccupare, è andata. Pensiamo a finirla.”
Lo rincuoro.
C’è, però, un ultimo ostacolo, Visseggi, che con i suoi due chilometri e mezzo di salita ti spezzano il ritmo. Non mi preoccupo più di tanto perché la conosco, avendola fatta anche lo scorso anno, e perché, una volta in cima, mancheranno pochi chilometri e praticamente tutti in discesa. Giunto in cima osservo La Spezia ed il suo porto ed ho la lucidità per abbozzare un paragone con lo scorso anno quando pioveva che Dio la mandava e, a causa delle nuvole basse, non si vedeva aldilà della ruota anteriore.
Ma oggi no!
Oggi se vuoi spingere ancora lo puoi fare ed io non mi tiro indietro. Entro con decisione e precisione in quella stradina come se fossi un abitante del luogo; passo ancora alcuni colleghi poco inclini ad inclinare (bella questa, non trovate?) la bicicletta, saluto persino alcuni che hanno già finito e stanno tornando alle loro auto (“Chissà quanto mi ha dato, stavolta, il primo.” Penso) ed entro in città.
Ultima curva a destra. Mi alzo sui pedali e insceno una volata come farebbe un cronoman per limare più secondi possibili ed ecco il traguardo.
Ed è proprio dopo l’arrivo il mio stupore quando, cioè, prendo il telefono per avvisare Eleonora che ho finito.
“Come è possibile? Non è nemmeno la una e mezza. E io che pensavo di tirare le due.”
Devo ammettere che, analizzando a mente fredda, le spiegazioni le ho trovate e, fondamentalmente, sono due: un dislivello altimetrico inferiore (soprattutto per quello che riguarda le pendenze) e tre settimane di allenamento in più (e scusate se vi par poco!). La conclusione con il pasta-party nel parco, ed i compagni di squadra che arrivavano alla spicciolata, la premiazione come quinta società classificata (ed il megalomane che vi scrive che è andato a ritirare la coppa sul palco) hanno fatto si che la giornata si concludesse nel migliore dei modi.
Solo una cosa mancava per renderla perfetta.
“Ciao Eleonora. Non preparare niente che usciamo a cena. Ti va?”
“Va bene.”
“Ciao Pierluigi. Ti dovevo un invito, venite a cena?”
“Ok.”
E così, con la compagnia di mia moglie Eleonora, mio cugino Pierluigi e sua moglie Esthèr, ho chiuso questa lunga giornata in un ristorante della zona mangiando, per restare in tema con il mare, spaghetti alla pescatora e fritto misto.
Questa volta vi do appuntamento già alla prossima settimana con la gran fondo della coppa piacentina.
A presto.

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