ALBINEA (Di certo la peggior gara di quest’anno)

Ciao a tutti.
Premetto subito che il sottotitolo non riguarda l’organizzazione che anzi, come spesso accade in Emilia Romagna, è stata all’altezza dell’evento, ma il sottoscritto e la sua prestazione.
Cosa è successo?
Forse i postumi dell’influenza patita in settimana, forse il caldo (chi mi conosce sa che, umido o non umido, quando la temperatura va oltre i 20 gradi io comincio a soffrire), forse il pensiero che essendo andato discretamente bene nelle gare precedenti ero sicuro di poter fare una buona prova anche oggi. Forse la somma di questi tre fattori? O c’era dell’altro?
Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte, cantava Dante in uno dei versi iniziali della Divina Commedia, ed io proverò a fare altrettanto.
La partenza è alle 9 ma quasi tutti i partecipanti sono in griglia con largo anticipo; noi del Pedale Novatese, oltretutto, siamo la squadra leader della classifica del Brevetto dell’Appennino perciò abbiamo un ulteriore stimolo che ci tiene in tiro (al momento della scrittura del racconto non conosco l’esito finale).
Partenza! Via a cannone come al solito? No, questa volta no.
Oggi, dopo un centinaio di metri, c’è una curva a sinistra e subito la strada sale al 5-6% e che ci porterà dopo poco più di 6 chilometri a Ca’ Bertacchi. In questo tratto mi sembra di andare bene, parecchi sono i colleghi che supero e controllati sono i battiti; la bella giornata, poi, fa si che il paesaggio attorno meriti occhiate di meraviglia per il verde lussureggiante dei pendii. La gara ha uno svolgimento alquanto lineare; si formano i diversi gruppetti che però fanno fatica a restare stabili in quanto il percorso è molto nervoso, curve e controcurve in un continuo saliscendi che spezza il ritmo. Tutto questo mangia e bevi mi fa credere di aver già fatto chissà quanti chilometri ed invece quando, a Casina, entriamo per percorrere un breve tratto della Statale 63 mi accorgo di aver fatto solo una ventina di chilometri.
“Cavolo, mi sa che oggi il tempo farà fatica a passare.”
E non avevo ancora visto il peggio!


Giusto il tempo di finire questo pensiero ed ecco profilarsi all’orizzonte la salita regina di questa gran fondo: il Castello di Carpineti.
Lunga solo 3 chilometri e mezzo, si è valutato che ha una pendenza media del 7% ma è il suo ultimo chilometro e mezzo a far paura, lì non si scende mai sotto il 10% ed arriva fino al 16%.
“Capisco che i nobili andavano in prevalenza a cavallo,”penso tra una sbuffata e l’altra, “ma come si faccia solo a pensare di costruirlo qui…”
Ovviamente è solo una riflessione per far passare il tempo mentre affronto questo muro approcciandolo con lo stesso criterio che ho usato 15 giorni fa alla Nove Colli.
Il criterio è lo stesso ma mi accorgo che non uguali sono le gambe; cerco di non preoccuparmene perché attorno a me non stanno meglio e scollino ancora tranquillo non fermandomi al ristoro perché siamo solo al trentesimo chilometro.
Ora giù in picchiata verso la valle del fiume Secchia che si raggiunge dopo 8 chilometri di tornanti dove la musica dei freni accompagna gli atleti più coraggiosi, tra i quali chi scrive, abituati a metter mano sulle leve all’ultimo momento.
Siamo una decina o poco più a presentarci al bivio dei due percorsi, posto dopo 45 chilometri circa, e mi rallegro nel vedere che solo un paio tirano dritto mentre la maggioranza svolta a sinistra.
I pensieri positivi, ahimè, terminano subito perché lungo i 7 chilometri di salita per arrivare a Villa Minozzo perdo contatto con gli occasionali compagni di viaggio e non riesco a consolarmi del fatto di averne lasciato indietro altri; insomma stavo guardando il bicchiere mezzo vuoto anziché quello mezzo pieno. La sensazione di gambe legnose aumenta con il passare dei chilometri quando, cioè, scopro che la salita non finisce lì ma la strada, un volta fuori dal paese, sale per altri 3 chilometri seppur con pendenza lieve.
In questo tratto dove giungo al tetto della corsa, Minozzo, a quasi 800 metri di quota, anche la schiena inizia a dirmi la sua al punto che per un breve lasso di tempo sono obbligato a lasciar cadere l’idea di mettermi in scia a chi mi raggiunge. Prima dello sconforto, fortunatamente, sopraggiunge la discesa che riporta verso il Secchia. Rapida attraversata e su, di nuovo, verso Bismantova con l’Eremo posto in cima a questa particolare montagna a far da spettatore. Per non farmi mancare niente, durante questa ascesa anche i crampi vengono a farmi compagnia.
“Diamine, un po’ presto. Sono a poco più di metà gara.”
Mentre con un po’ di pazienza ed esperienza vedo di farmeli passare, cosa che riesce in breve tempo, in me si insinua un dubbio perché so che prima o poi ritorneranno.
Il sole, nel frattempo, è alto sulle nostre teste e questo aggiunge un nuovo problema: la sete. Chiedo, perciò, ad un collega della società organizzatrice quanto manca al ristoro; il fatto che non lo sappia nemmeno lui mi abbatte. Di lì a poco, eccolo. Purtroppo non ha sali ma solo acqua, Coca-Cola e thè, in ogni caso mezza banana la trangugio con avidità e ne approfitto per aspettare Maurizio che ha deciso di fare il percorso lungo. Dopo pochi minuti, non vedendo arrivare nessuno con la mia stessa maglia, riparto con nuovi colleghi con i quali affronto l’ennesimo falsopiano. Pietra Bismantova è ormai alle spalle e poco più di 30 sono i chilometri che mi separano dal traguardo; come saranno?
La prima risposta me la danno i 2 chilometri che portano a Marola, non duri ma che lasciano il segno se già non sei in perfetto stato; in cima c’è il ristoro effettivo dove, oltre a riempire la borraccia di sali, chiedo lumi su quel che rimane da fare.
“E’ quasi tutta discesa, ormai; c’è solo una salitella di un paio di chilometri. Si può dire che ormai è fatta.”
Mi risponde un volontario con il classico accento di queste parti. Ora. Tutti sapete, care amiche e cari amici, quanta stima nutro per queste persone che spendono la domenica affinché io e quelli come me ci si possa divertire ma, a parte che la salitella ne misurava 3 e non 2 di chilometri, che nello stato in cui ero è una bella differenza, perché non essere onesti e dire che il falsopiano presenta scalini dalle pendenze considerevoli?
In quei momenti mi aspettavo che Matilde di Canossa (il cui castello abbiamo sfiorato) vedendomi, ed impietosendosi per il mio stato, mandasse qualche scudiero a spingermi ed alleviare le mie sofferenze; si perché, come detto poc’anzi , i crampi erano tornati belli vispi e farli passare in quel tratto di strada ha richiesto tempo. Una magra consolazione è venuta dal vedere che attorno a me non stavano meglio (come si suol dire Mal comune mezzo gaudio), chi si toccava la parte posteriore della coscia, chi improvvisava un massaggio, io che facevo stretching. Finalmente la discesa che, sebbene assomigliasse più ad una pista di slalom speciale per quanto vicini erano i tornanti, ha ridato un po’ di vigore al nostro manipolo.
Ecco Vezzano e con esso l’immissione sulla statale questa volta direzione nord.
Ultimi 5 chilometri, svolta a destra sul ponte del torrente Crostolo. Nonostante i dolori si riesce a fare un’andatura vicina ai 40 chilometri orari.
Ultimo chilometro. Veniamo deviati su una pista ciclabile e…
Oh no!
Al termine del parchetto che stiamo attraversando la strada sale ancora; provo a prendere di slancio, nel limite del possibile, il tornante ma una volta passato non è finita. Riesco a cambiare per evitare di piantarmi e, dopo una curva a destra, giungo al traguardo in compagnia di una dozzina di colleghi e dei miei dolori.
E’ stata dura. 125 chilometri, corredati da 2500 metri di dislivello, mi hanno rimandato alla cruda realtà che Viareggio e Cesenatico mi avevano fatto dimenticare e, come l’imperatore Enrico IV, ho dovuto cospargermi il capo di cenere al cospetto della Grancontessa Matilde e tornare umile.
Anche questa gara, perciò e a modo suo, mi ha insegnato qualcosa.

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